21 giu 2011

MELANIA



Il “Corriere della Sera” di oggi, 21 giugno, titola così: “Ha ucciso Melania, indagato il marito”.
L'omicidio è sempre ingiustificato, ma può anche avere ragioni comprensibili, come il “delitto d'onore”, un tempo accettato in certe subculture, o come conseguenza di una lite che trascende, o il delitto per gelosia (come quello di Otello), o quello politico (Delitto Matteotti, ad esempio).
Ma il “caso” di Melania è, per me, oltre che ingiustificabile, sopratutto incomprensibile.
Incomprensibile perché non era la vittima, Melania, l'infedele, ma il boia che l'ha uccisa.
Incomprensibile perché nella cultura in cui viviamo esistono forme più civili di porre fine ad una storia che, per qualunque motivo e per colpa di qualunque dei due, è terminata.
Incomprensibile per il freddo calcolo con il quale è stato pianificato e portato a termine, freddo calcolo del tempo e del luogo.
Un delitto probabilmente premeditato, la cui vera vittima non è Melania, ma la piccola nata da un matrimonio apparentemente felice.

18 giu 2011

UNA GITA A NAPOLI



Si erano conosciuti per Internet su una pagina di un social network, poi l'amicizia virtuale si era trasformata in reale, grazie al fatto che entrambi vivevano in quello stupendo fazzoletto di terra in mezzo all'Atlantico che è l'isola di Gran Canaria. Luciana archeologa di professione, specialista in civilizzazioni preromane del Mediterraneo, lui appassionato amateur di archeologia, avevano trovato una ragione, un affinità culturale che aveva trapassato i limiti dell'amicizia virtuale per trasformarsi in un solida amicizia reale. Aveva trasferito su di lei tutto l'affetto che provava per la sua figlia reale, unica dopo cinque maschi, che, anni prima, aveva rotto tutti i contatti senza alcuna ragione che gli fosse dato intendere (“Dobbiamo parlare”, gli aveva scritto qualche anno addietro in risposta ad un suo e-mail col quale lamentava il silenzio ed il gelo che si era stabilito fra loro due ma non avano mai parlato...).
“Sei mai stata a Napoli?” le domandò.
“No...”
“Allora ti faccio una proposta. Quando prendi le ferie?”
“A giugno”
“Se vuoi, ti porto a Napoli per un paio di giorni. Ti va l'idea?”
Luciana accettò l'idea, ed ai primi di giugno partirono. Presero un volo diretto da Las Palmas ed arrivarono nella tarda mattinata all'aeroporto di Napoli Capodichino, dove affittarono una macchina.
Per il Corso Lucci arrivarono a piazza Garibaldi, completamente intasata di auto con centinaia di clacson che strombazzavano contemporaneamente a più non posso.
“Che chiasso infernale!” commentò Luciana.
“Che ci vuoi fare? Nella mente del napoletano esiste la strana convinzione che, suonando il clacson, la macchina che sta davanti a lui si muova...”
Poi il Rettifilo, per via Depretis arrivarono alla fine a piazza Municipio, difronte alla mole grigia del castello del Maschio Angioino. Parcheggiarono la macchina e si avviarono a piedi verso il castello.
“Che te ne pare, fin qui?” le chiese.
“Uhm...non è che abbia visto molto...però, fin qui, bene, mi piace.”
Per fortuna, quel giorno il Maschio Angioino era aperto ai visitanti, sicché, varcato il portale marmoreo aragonese, poterono vedere la famosa Sala dei Baroni, dove il papa Celestino V fece “il gran rifiuto” ed il successivo conclave elesse il famoso Bonifazio VIII, ed ammirare le sottili nervature di pietra che sostengono la enorme cupola.
“Qui si respira la storia!” mormorò Luciana.
“Sì, troppo spesso noi napoletani ci dimentichiamo chi siamo stati...”
Pranzarono in un buon ristorante non lontano, in via Santa Brigida, e poi, ripresa la macchina, senza mai lasciare il lungo mare, per via Nazario Sauro, poi via Partenope, poi per via Caracciolo fino al porticciolo di Margellina e la Villa Comunale. Al passare all'altezza del Castel dell'Ovo, come lanciato in mezzo all'azzurro del del mare su di una lingua di terra, lui le domandò:
“Sai cos'è quella massa di tufo giallastro che sembra navigare verso orizzonti lontani? È il Castel dell'Ovo, anteriore al Maschio Angioino, dove visse la regina Giovanna I.”
“Perché si chiama così?”
“Il nome deriva da un'antica leggenda secondo la quale un mago nascose nelle segrete dell'edificio un uovo che mantenesse in piedi l'intera fortezza. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del catello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.”
In piazza Plebiscito, Luciana ammirò il colonnato della chiesa di San Francesco di Paola, che copiava, a scala ridotta, quello della Basilica di san Pietro a Roma, e si soffermò davanti alle sei statue a grandezza naturale nelle nicchie della facciata del Palazzo Reale, tre per ogni lato del cancello d'ingresso.
“Chi sono questi personaggi?”
“Sono i re delle diverse dinastie che si sono succedute sul trono di Napoli, dal più antico, Ruggero il Normanno, fino al più recente, Vittorio Emanuele II di Savoia, passando per Federico II di Svevia (che Dante chiama “il vento fresco di Soave”), Carlo D'Angiò (quello che fece costruire il castello che abbiamo visitato e che da lui prende il nome), Carlo V d'Asburgo, Carlo III di Borbone, il “re buono”, a cui si devono grandi opere di beneficenza come l'Albergo dei poveri, poi Gioacchino Murat, che in realtà fu solo Viceré, governando in nome del cognato Napoleone Bonaparte”.
“Quanti secoli! Sono stupita, non lo sapevo!”
“Già. Siamo più vecchi di voi...Il Regno di Spagna nasce al finale del secolo XV, mentre quello di Napoli agli inizi del XIII! Quasi tre secoli prima!”
“Via, non vorrai litigare per ragioni di storia, no?”
“Io, litigare con te? Macché! Era solo una battuta...Ma ora ti porto a pranzare...”

15 giu 2011

PER UNA CARA AMICA CHE SI SPOSA



Collis o Heliconii cultor, Uraniae genus, qui rapis teneram ad virum virginem, o Hymenaee Hymen, o Hymen Hymenaee; 5 cinge tempora floribus suave olentis amaraci, flammeum cape laetus, huc huc veni, niveo gerens luteum pede soccum; 10 excitusque hilari die, nuptialia concinens voce carmina tinnula, pelle humum pedibus, manu pineam quate taedam.
(Abitatore del colle eliconio, stirpe di Urania, che rapisci la tenera vergine per il marito, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo; cingi le tempia di fiori dell’amaraco che profuma soave, lieto prendi il fiammante (velo), qui, vieni qui, calzando col niveo piede il fangoso zoccolo; eccitato dal gioioso giorno, cantando inni di nozze con voce tintinnante, batti il suolo coi piedi, con la mano scuoti la fiaccola di pino.)

BACHMANN, ovvero la stupidità di una candidata



Piaccia o non piaccia, bisogna riconoscere che gli USA sono una superpotenza la cui politica influenza tutti.
Per questo sono preoccupanti certe prese di posizione, come quella della Bechmann, per la quale «global warming» viene liquidato come una burla (i «gas-serra sono naturali, fanno bene»).
Se l'equipe di esperti che sicuramente le preparano le interviste ed i comizi hanno creduto di inserire questa opinione, vuol dire che una buona fetta di americani condivide questo punto di vista.
In che mani potremmo andare a finire...

10 giu 2011

IL PRESEPE DI PAPÀ



Avrò avuto cinque o sei anni quando mio padre allestì il presepe più grande che avesse mai allestito, e che mai più, in seguito avrebbe uguagliato.
La casa, situata in un edificio di vecchio edificio dalle scale con gli scalini sbrecciati della zona vecchia di Camogli, si sviluppava tutto attorno ad un salone centrale e, oltre alle camere da letto e la cucina, aveva uno stanzino buio, stretto e lungo. In questo stanzino mio padre mise due panchette e, poggiate su di esse, alcune lunghe tavole piane. Su questa base montò poi uno scheletro di listelli sottili di legno per fare le montagne.
Su questo scheletro, a differenza di come si usa fare a Napoli, non usò pezzi di sughero, ma una carta speciale, a chiazze marroni e verdi. Questi fogli di carta si appallottolavano per spiegazzarli il più possibile, poi, aperte le pallottole, si incollavano sullo scheletro di legnetti con colla di farina fatta all'uopo, giacché a quei tempi le colle bianche “industriali” tipo Vinavil non esistevano. Il cielo lo realizzò con grandi fogli di carta blu notte, su cui aveva precedentemente spruzzato con un grosso pennello della pittura bianca all'acqua per “fare” le stelle. E questo cielo non ricopriva solo la parte posteriore della scena, tra una montagna e l'altra, ma faceva una vera e propria volta coprendo anche il soffitto dello stanzino. Lungo le pedici delle montagne si snodava un sentiero che portava fino alla grotta, alla loro base. Davanti alla grotta, una spianata ricoperta di muschio fresco, “raccolto” specialmente per l'occasione.
Le figurine erano tantissime, di grandezza variabile: le più piccole si sarebbero collocate sulla stradina che scendeva dalla montagna, aumentandone sempre le dimensioni fino alle più grandi, che si collocavano davanti alla grotta, e quelle della sacra famiglia, il bue e l'asinello. Erano tutte di una squisita qualità artistica, e rappresentavano pastori e contadini, con i loro abiti caratteristici e portando doni di tutti i tipi, da un agnello caricato sulle spalle, a ceste di prodotti del campo. Ai due lati della grotta, c'erano due zampognari, che suonavano la ninna-nanna per il bambinello. Tutto lo scenario era illuminato da piccole lampadine elettriche, abilmente occulte. Alla mezzanotte, si portò il bambinello alla grotta con una piccola processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”.Fu davvero emozionante.

9 giu 2011

MATRIMONIO E CONVIVENZA - 2ª



In una sentenza del 15 febbraio di quest'anno, la Corte di Cassazione afferma la parità giuridica tra matrimoni e coppie di fatto.
Una sentenza storica che, oltre a garantire determinati diritti dei coniugi, come il diritto alla pensione, agli assegni familiari, alla mutua, garantisce anche un diritto fondamentale dei figli: quello del riconoscimento della paternità. Una sentenza saggia, che arriva forse tardi ma, si sa, meglio tardi che mai.
Avevamo già osservato in un post precedente come l'evidenza sia che moltissime coppie regolarmente sposate, in chiesa o al municipio, si rompono e che, moltissime coppie solo conviventi durano tutta la vita.
Ma da dove nasce, dunque, la necessità del matrimonio?
Il matrimonio è vecchio come la stessa civilizzazione, dalla semplice formula romana del “ubi tu Caius ego Caia” ai complicati riti attuali della Chiesa Cristiana Ortodossa, ai fastosi matrimoni dei principi e regnanti in realtà il matrimonio, il matrimonio ha sempre avuto una funzione per la società: il riconoscimento dei figli, giaccè, come dicevani i romani, "Mater semper certa, pater nunquam". Nel caso di principi e regnanti, è necessaria per la successione al trono, per i “plebei”, per poter usufruire dei benefici sociali.
Fino ad oggi, in questa nostra Italia patria, fra tante cose meravigliose, del diritto, un figlio nato da una coppia di fatto era un figlio illegittimo.
Questa sentenza viene a correggere questa ingiustizia di legge. Benvenuta sia!

6 giu 2011

DIARIO DI UNO STUDENTE



Eravamo rientrati a Napoli, città di origine delle famiglie, dopo anni di lontananza.
La decisione era stata presa dopo i fallimenti imprenditoriali di papà, prima con la truffa patita per un palazzo costruito a Serravalle Scrivia, del quale aveva fatto il progetto e diretto i lavori senza ricevere alcun compenso (gli sarebbero dovuti toccare in proprietà due piani dei sei costruiti ma, grazie ad un inghippo legale, glieli rifiutarono), poi di una avventura editoriale, che affondò perché il socio capitalista non pose a disposizione i soldi promessi. Da Napoli, un cognato di papà gli aveva scritto ripetutamente che la città era tutto un fermento di costruzioni, era tutto un cantiere, che si costruiva dappertutto, che sicuramente avrebbe trovato da fare...
Si lasciò convincere, e partimmo, noi tre e li gatto persiano rosso della famiglia.
E così, anno scolastico nuovo, scuola nuova: un Istituto di preti, una delle migliori scuole di Napoli.
La differenza rispetto alla scuola rurale di Serravalle che più mi colpì furono le aule: banchi mantenuti pulitissimi, senza un graffio o uno scarabocchio, lavagne ampie, grandi carte geografiche alle pareti. I professori, la maggior parte laici. L'ambiente, i compagni, medio-alta borghesia. Io mi trovavo perfettamente a mio agio, e subito feci amicizia con alcuni dei compagni di scuola.
In quella scuola avrei frequentato le tre medie, ginnasio e liceo, ed avrei fatto amicizie che sarebbero durate tutta la vita. Una in particolare, fu quella con Wannio, che, anni dopo sarebbe addirittura diventato padrino di battesimo del quarto dei miei figli, l'ultimo nato a Napoli. Purtroppo, le vicissitudini della mia vita, me li fecero perder di vista, anche per colpa di mia moglie, che partiva dal presupposto che le amicizie di una coppia solo dovessero essere quelle fatte insieme.
Una figura importante di quell'epoca fu il Prof. Mario Frezza, docente di lingua e letteratura italiana. Ottimo insegnante, molto preparato, era però lo spauracchio di tutti, attuali e precedenti studenti dell'Istituto. Non perché avesse mai alzato la voce, o usato una bacchetta (come facevano alcuni preti),ma perché la sua aria di perennemente disgustato, distante, schivo da qualsiasi rapporto informale, spaventava tutti. Eppure, fuori dalla classe, era un uomo molto alla mano: ricordo come una volta convocò me ed un altro compagno mio di classe per aiutarlo a correggere le bozze di un articolo che stava pubblicando. Ci portò a casa sua con la sua macchina, e per tutto il percorso non fece altro che commentare quanto potente e veloce fosse quell'automobile sportiva che conduceva spericolatamene per la strada tutta curve che portava dal piazzale Montesanto, nella zona bassa di Napoli, alla collina del Vomero dove abitava.
Le bozze del Prof. Frezza non furono le uniche che mi toccò correggere: anche l'ex preside dell'Istituto, docente di filosofia all'Università di Napoli, mi affibbiò il lavoro ingrato di correggere quelle di un suo lavoro su Plotino. Non erano le due paginette di Frezza, erano un centinaio almeno di pagine...
Anche durante i non rari periodi di difficoltà economica che la famiglia aveva vissuto, sempre avevo frequentato la scuola in istituti privati. Snobismo? Vanità? No, necessità, almeno per papà: lui e mamma non erano sposati e, all'anagrafe, il mio cognome era quello di mamma. Nelle scuole private, papà riusciva a convincere i
presidi ad iscrivermi con il suo cognome, ma ora, con la maturità alle porte,occorreva una soluzione più drastica e definitiva. Una sorella di papà, Maria, rimasta da poco vedova, mi adottò legalmente e, di conseguenza, presi il suo cognome, che era anche quello di mio padre. Obbiettivo conseguito! Da allora sarei stato un Rende di nome, anche se fin dalla nascita lo ero di fatto!
Zia Maria era solita recarsi a “fare i fanghi” in una località vicina, Pozzuoli, nota, oltre che per le sorgenti termali, per il curioso fenomeno del bradisismo, che la fa periodicamente innalzare e poi riabbassare, e per le rovine di un tempio di Serapide, del quale rimanevano, oltre la prima fila di pietre del muro di cinta, su di una pianta rotonda tre alte colonne e tutta una serie di colonne più basse. Ci portava sempre con se, mio cugino Ennio, due anni maggiore di me, e me per tutta la quindicina che lei passava a Pozzuoli.
E fu proprio a Pozzuoli che imparai a nuotare. Sì, perché, non ostante le tante estati passate sulla spiaggia di Camogli, non sapevo nuotare...Ma, come si dice, di necessità virtù: Pozzuoli non ha una vera a propria spiaggia e, per bagnarsi a mare, era necessario tuffarsi dalla diga foranea del porticciolo. Pere mio cugino Ennio, nuotatore esperto, non era nessun problema e, per me, fu giocoforza tuffarmi...e non annegare!
Finalmente arrivò la tanto temuta maturità.
Gli scritti.
Italiano: scelto il tema di critica ad una poesia (“Il sonetto”) di Metastasio, feci la critica comparandolo con l'omonima poesia di Carducci, che non portavamo nemmeno in programma, citandolo a memoria. Totale: quattro facciate complete di protocollo (non a metà, come si usava).
Latino: senza pena né gloria, ma me la cavai abbastanza bene.
Greco: quell'anno, il 1962, fu un disastro in tutta Italia: il testo giunto dal ministero aveva un errore di ortografia (mi sembra che mancasse una iota sottoscritta ad un omega) che rese un periodo assolutamente intraducibile. Meno male che la commissione esaminatrice ne tenne conto, sennò chissà come sarebbe finita, e non solo per me...
Agli orali, un piccolo incidente, che mi costò tre decimi in meno sulla media finale: portavamo, come libro di referenza, “I Malavoglia” di Verga. Io, lo confesso, non lo avevo mai neanche aperto (in realtà, non lo avevo nemmeno comprato...), sicché, quando la cerbera esaminatrice, dopo varie domande a cui risposi correttamente, mi buttò lì un “Mi parli del quarto capitolo de “I Malavoglia” e della sua importanza nello sviluppo del romanzo”, rimasi a bocca aperta. Ma che, aveva voglia di fregarmi a tutti i costi? Anche se avessi letto il libro, come potevo ricordare UN CAPITOLO in particolare, sopratutto con la tensione dell'esame?
Non ostante tutto, devo dire che fui soddisfatto della media finale di 9,7/10, anche se questo mi lasciò solo al secondo posto del successivo concorso regionale per la migliore maturità...ed “I Malavoglia” l'ho poi letto, e...non m'è piaciuto. Inconscio vizio d'origine? Forse...
La prima lezione di Chimica Generale 1 mi affascinò. Non tanto per il contenuto (avevo già letto, per conto mio, qualcosa sull'argomento), ma per la scenografia: l'aula grande con le grade affollate di studenti, il giovane professore (aveva solo trentun anni, ed era già titolare di cattedra e direttore dell'Istituto Chimico) che sarebbe rimasto il mio idolo per sempre, il bancone di mattonelle bianche dove si potevano montare esperienze, la grande Tavola Periodica di Mendeleeev appesa alla
parete alle spalle del professore...
L'aula era piena perché i corsi di Chimica Generale erano condivisi con gli studenti delle altre scienze (biologica, naturale, geologia): in realtà, alla facoltà di Chimica e Chimica Industriale ci eravamo immatricolati in novantadue, dei quali al quinto anno eravamo rimasti solo cinque: gli altri si erano “perduti” per strada: fuoricorso, o cambiati di facoltà.
All'epoca, esisteva solo l'Università Federico II”, e tutto ruotava nei vecchi edifici tra Corso Umberto I, Via Mezzocannone e la parallela Via Palladino. Ovviamente, il “regno” ella facoltà di medicina era il vecchio Policlinico Generale. Il Politecnico si sarebbe trasferito, qualche anno dopo, nelle nuove istallazioni di Fuorigrotta, e così non ci furono più “ingegneri” a condividere con noi le aule di matematica nell'Istituto di via Mezzocannone.
Gli anni dell'università passarono in fretta, e mi trovai alle porte della laurea senza un solo esame arretrato dei trentatré previsti dal piano di studi (al quarto anno avevo liquidato tutti e nove gli esami previsti dal piano di studi tra la sessione di giugno e quella di settembre, un vero tour-de-force).
Furono comunque anni epici, di corsa da un'aula all'altra di mattina, il pomeriggio i laboratori, la sera a studiare. Andare a cinema? Rarissimo. Uscire con la morosa? Se e quando si poteva, la domenica, le feste comandate e le vacanze estive, queste ultime sì, al mare insieme!